Dall'altro mondo

Guardando da un'altra parte, un giorno mi disse che gli tornava spesso in mente quell'erba appiattita dai loro sederi, su quel pendio incolto che degradava verso il Drago. Raccontò che era maggio o forse giugno, e che su quel pendio volavano miriadi di insetti tra cui spettacoli e variegate farfalle senza nome se non quello che derivava dal colore che predominava sulle loro eleganti ali. Su di esso sfrecciavano Rondini, Balestrucci e Rondoni comuni compiendo a volte dei voli rasoterra che lo lasciavano meravigliato. Annuì a sé stesso mentre diceva che se la maestria di peripezia spericolata alberga in qualche uccello, questi è il Rondone comune, per la velocità con cui conduce i suoi voli apparentemente pazzi. A volte, li vedeva sfrecciare così vicino a sé stesso che si chiedeva come facessero a non curarsi della sua presenza, sentiva l'aria sibilare sul corpo saettante degli uccelli, come se questi fossero proiettili che gli passavano accanto. Mi confessò che la particolare sensazione che sentiva in quei momenti doveva forse dipendere dal fatto che non era più un corpo estraneo piantato in quel luogo mosso dalla brezza, ma forse, per un breve lasso di tempo, diventava un tutt'uno spersonalizzato con tutto ciò che lo circondava. 

Evoluzioni aeree di due Rondoni comuni (Apus apus- Francavilla Angitola (VV), giugno 2020


Si ricordò che scivolavano seduti, tenendo le gambe un po' alzate, in modo da rendere l'attrito limitato alle sole chiappe. Grazie alla pendenza, prendevano una discreta velocità che aumentava man mano che l'erba si appiattiva ai loro continui passaggi. Si fermavano poi più giù, dove la pendenza del terreno si addolciva per poi riguadagnare la testata del pendio e ricominciare la giostra. Era quasi come scivolare sulla neve, non si bagnavano il sedere ma era molto probabile che i loro calzoni si tingessero di verde per la gioia delle madri che, sicuramente, non stavano aspettando altro che glieli riportassero indietro, ciò almeno a giudicare dalle grida con cui li accoglievano quando rientravano. In quei tempi, tornare a casa sporco ed inzaccherato non era una possibilità remota. Con un sorrisetto divertito, mi disse che da qualche casa, tra le grida, poteva volare ad altezza umana un fuocu mu ti pijja! o che addirittura, poteva riecheggiare, fin fuori le mura domestiche, anche il fatidico chimmu ti mangianu i cana! che, continuò quasi ridendo, analizzandolo così com'è, può vagamente sembrare una sorta di bocca al lupo! ma, per come era detto, assomigliava molto ad un chiaro augurio dettato dalla quotidiana esasperazione.

Rione Pendinu - Francavilla Angitola (VV), ottobre 2020


Non manifestò indugio nel confermare che buona mira e soprattutto buone gambe erano strumenti indispensabili per evitare di finire realmente mangiati, qualora i cani si fossero veramente palesati. Qualche incontro drammatico poteva avvenire con i cani che seguivano le greggi di pecore e capre, ma non era la sola possibilità. Raccontò che una strada separava l’area del citato pendio da un terreno inizialmente piano e limitato da una siepe, regno di Occhicotti e dominata da rovi e puntuti pruni selvatici, che la rendevano una sorta di insormontabile confine. Ricordò che lì, presso una costruzione rurale, stazionava spesso un asino, era a ciuccia di un certo Mastru Michieli, proprietario del fondo: un anziano, dall'apparenza burbera, che spesso vedevano fare la spola, con lento incedere, tra il paese ed il suo terreno, seguito dall'inseparabile asino tenuto alle briglie. Gli sembrava un po’ strana quell'accoppiata, non parlavano con lui e lui non parlava con loro. Mi disse però che rammentava bene che qualche volta l'anziano gli aveva chiesto il nome e, alla sua risposta, aveva cavato dalla tasca dei suoi pantaloni da lavoro una manciata di nocciole appena raccolte, porgendogliele con una sorta di sorriso. Come se lo vedesse davanti ai suoi occhi, narrò che in quel terreno bazzicava pure una bassa cagna che aveva vagamente l’aspetto di un trasandato quanto scuro spinone; da quando andava in calore sin alla crescita dei nuovi nati, era attorniata da un mugolo di cani. Disse che tra questi, c'era un grosso maschio bianco e nero che, quando l’incontrava nelle vie del paese, gli sembrava un bacchettone che temeva anche la sua ombra; qui sbucava dalla vegetazione latrando come un forsennato e correndo minaccioso verso di loro, tirandosi dietro tutta la chiassosa e disordinata muta dei suoi compagni dai colori e dalle taglie variegate: insomma, non ci potevi più ragionare! Nemmeno il gesto di abbassarsi a prendere una pietra, che solitamente bastava a seminare il panico tra tutti i cani randagi che si aggiravano in paese poiché avevano imparato, a loro spese, che, da lì a breve, avrebbero potuto ricevere una micidiale sassata… nemmeno questo appunto, serviva da deterrente per fermare la sua folle corsa. Scuotendo il capo rammentò che doveva correre più di lui, controllandolo con la coda dell’occhio e sfruttando il vantaggio spaziale che aveva avuto cura di preservare, in modo da mantenere una distanza di sicurezza adeguata alla situazione: sapeva che poteva fermarsi solo quando lui ed i suoi compagni lo avrebbero fatto, lì, sulla strada, pettoruti e baldanzosi per aver allontanato i potenziali intrusi.

Un maschio di Occhiocotto (Sylvia melanocephalatra i rami di un rovo - Roma, ottobre 2020


Evidentemente aveva voglia di parlare perché ricordò che da quello stesso pendio da cui scivolavano, dei sentieri serpeggiavano ben tracciati tra l'erba, i cespugli ed i rovi su cui si muovevano colorati Saltimpali e vociferi Beccamoschini: portavano alla strada principale di accesso al paese e quindi alla Fontana del Drago che, all'epoca, andava molto di moda per bere ed attingere acqua fresca da portare a casa o, in estate, al mare. Un guado su comode pietre, sapientemente scelte e poste da mani esperte, permettevano di raggiungere la sterrata che costeggiava il bianco muro di cinta di quel che fu il mattatoio. Da lì, con un attraversamento stradale in prossimità di una curva, ci si poteva raccordare ad un sentiero che portava direttamente all'allora campo da calcio. Non si arrivava dall'accesso principale, bensì dal lato degli spogliatoi unanimemente riconosciuti come tali: una fila di tre, forse quattro querce di almeno una settantina d'anni ciascuna, forse di più, che protendevano le loro maestose fronde, sfiorate dalle Gazze, dalle Ghiandaie e dai Gheppi, anche verso il basso in modo da fornire un'apparente protezione a quanti si apprestavano a cambiarsi d’abito per raggiungere, in tenuta sportiva, il campo da gioco in cui avrebbero dato prova delle loro migliori doti atletiche. Lì, avrebbero lasciato gli indumenti puliti, avendo cura di evitare di poggiarli ai tronchi che potevano brulicare di fastidiose ed invadenti culierci.

Una Ghiandaia (Garrulus glandariussi aggira tra i rami di un fico - Francavilla Angitola (VV), agosto 2020


Raccontò che il pallone era nella testa di quasi tutti, riconosciuto, a torto, come l'unico sport da poter praticare e discutere al limite della lite sulla falsa riga di argomentazioni che spaziavano da Bettega scartava meglio di Mazzola a Palanca calciava punizioni più belle di Antonioni. Apostrofò con una certa solennità che quello era il terreno di gioco solo delle occasioni speciali, quelle che meritavano il pallone di cuoio, degli incontri ad undici tra classi o rioni, dei tornei estivi combattuti dalle varie squadre paesane o provenienti dai limitrofi comuni, quelli in cui giocavano i fuori classe. Per il resto, disse, c'era il cortile della scuola media da raggiungere dopo averne scavalcato il cancello e da abbandonare in fretta nel caso in cui fossero venute le guardie comunali a fare un controllo con il rischio di strappare i pantaloni sulle appuntite inferriate metalliche che lo circondavano o, peggio ancora, sciancarsi pesantemente il corpo sulle acuminate punte consumate dalla ruggine. Continuò divertito dicendo che lì, invece, le partite non avevano una durata fissa, erano giocate senza arbitro e con solo l'onestà intellettuale o la capacità di mentire a dettar le regole e far valere le ragioni in caso di eventi di gioco dubbi. Ricordò che in quella foga di vincere, c’era chi si cimentava in solitarie ed eroiche azioni con il pallone tra le gambe, sottolineate dagli immaginari incitamenti di un pubblico inesistente, che sarebbero costate i rimbrotti dei compagni per non aver passato la palla; c’era chi calciava a rete da posizioni improponibili sicuro di poter imprimere al pallone effetti tali da fargli seguire traiettorie fantascientifiche; c'era chi difendeva strenuamente la propria porta, sormontata da un’invisibile traversa e limitata da due canne che difficilmente si mantenevano in posizione verticale e che schizzavano via, con un gran botto, ad ogni palo colpito. Disse che, immancabilmente, il pallone finiva nel grosso roveto che soffocava il già fitto canneto che cresceva lungo il vicino torrente. L'ultimo che lo toccava doveva andare a riprenderlo, scavalcando la già citata e pericolosa recinzione, percorrendo umide quanto insidiose discese nel letto del fiume, aprendosi passaggi tra le alte e rigogliose ortiche e percorrendo gallerie ricavate e coperte dalla poderosa volta formata dalla sregolata vegetazione. Il pallone si poteva certo bucare, ma difficilmente veniva perso, era troppo prezioso per abbandonarlo in quello intrico di spine e more, rifugio diurno di Ratti neri e di Assioli ed abitato da Capinere ed Usignoli che cantavano sentendo di vivere nel posto più bello del mondo. Si mise quasi a ridere quando disse che se uno avesse tardato a completare l'operazione di recupero, qualcuno dei compagni lo avrebbe chiamato o per canzonarlo o per accertarsi che fosse ancora vivo perché, in fondo, nessuno voleva avere l'ingrato compito di dire ad una madre che il figlio era andato perduto, inghiottito dall'ignoto, nel vano tentativo di recuperare un rosso ed incontrollabile Super Santos.

Un giovane Astore (Accipiter gentilissfida un Falco pecchiaiolo (Pernis apivorusad un duello aereo - Francavilla Angitola (VV), agosto 2020


Per fortuna, disse, oltre al pallone, c'era dell'altro. Era già stato il tempo di Orzowei, il figlio della savana, di Sandokan e successivamente di Tarzan e, guardandomi, narrò che un po’ tutti si sentivano guerrieri legati a qualche tribù spesso identificata con la banda di altri ragazzini appartenenti al proprio rione, acutizzando un campanilismo che era già insito tra le vie del paese. Sull'identica influenza, disse che si sentiva un certo richiamo e legame verso il mondo naturale che li circondava e soprattutto verso gli animali che vi vivevano o si immaginava che potessero viverci. Con l'atteggiamento di chi sta per confessare un segreto, iniziò a vagheggiare che andava di moda costruire archi, cercando e scegliendo personalmente rami flessibili da piegare, fissare e soggiogare con apposite corde in modo che quest’ultime risultassero ben tese ai due capi. Altri rami, diritti e sottili, ripuliti dalla corteccia e resi appuntiti, funzionavano da frecce. E siccome la corsa agli armamenti non era stata certo inventata da Sovietici e Statunitensi in quegli stessi anni di Guerra Fredda, iniziava una gara a chi aveva arco e frecce migliori: con gravità, sottolineò che spuntavano così, vere e proprie armi che certamente, se non ammazzare, potevano seriamente offendere un ragazzino o un ignaro gatto vagante. Scrutandomi per accertarsi che stessi ascoltando con il giusto animo quanto stava per dire, ricordò che con lo stesso spirito, con canne che fungevano da struttura portante, e cespugli e felci, raccolti con perizia ed usati invece per erigere pareti e coperture, si costruivano capanne, anche elaborate, in cui i membri delle varie bande si potessero incontrare indisturbati. Constatò che queste capanne diventavano il fulcro di ogni banda, simbolo della propria capacità e forza, ragion per cui dovevano essere mimetizzate con l’ambiente circostante, per non essere scorte da occhi indiscreti, e difese dai rivali che chiaramente erano i membri delle bande vicine. Perciò, se uno scopriva una capanna incustodita non sua, se sentiva di poter affrontare le possibili conseguenze, poteva raderla al suolo senza pensarci due volte. L’azione, naturalmente, non sarebbe stata gradita ai legittimi proprietari che, o avrebbero ricostruito la struttura in un punto più sicuro, oppure avrebbero cercato di identificare i responsabili, o addirittura avrebbero eletto direttamente un colpevole o un gruppo di colpevoli, sulla base dei sospettati principali. Si poteva negare o forse, forti della banda di appartenenza, si poteva rivendicare l’affronto fatto. Ne nascevano, inevitabilmente, delle vere e proprie liti tribali tra bande, combattute prima da lontano, a voce e, se necessario, a sassate, e poi, se gli animi non si fossero acquietati, anche da vicino con ogni mezzo a disposizione. Nei casi più eclatanti, le ostilità potevano perdurare e trascinarsi nel tempo e gli scontri potevano allargarsi alle bande alleate unite da labili patti di reciproco aiuto, in un'escalation che poteva essere bloccata soltanto da una resa oppure da formali accordi di pace, negoziati tra i membri più rappresentativi dei gruppi contendenti, magari rabboniti da pacieri estranei alla contesa in corso. Tutto ciò, lontano dagli sguardi degli adulti a cui si evitava di fornire dettagli a meno che non ci fosse la necessità di spiegare una testa sanguinante oppure un braccio dolorante o addirittura rotto per una lite.

Il corso di un ruscello montano fa da specchio ad una faggeta - Vallefiorita (CZ), agosto 2020


Riprese cambiando argomento, dicendo, rallegrandosi, che secondo lui ci doveva essere un legame invisibile con l’acqua, una qualche magia ideata e proferita da qualche antica magara locale per colpire la classe più giovane della popolazione che, irresistibilmente, si sentiva spinta a cercare e frequentare sorgenti, gorgogliosi ruscelli e gibbie più o meno profonde. A suo dire era veramente difficile essere immune a questo strano richiamo che inconsapevolmente li coglieva e li tratteneva presso questi luoghi freschi ed umidi, abitatati da curiose creature spesso percepite con vero ribrezzo da chi aveva superato quella critica età. Inutili erano i tentativi dei genitori di vietarne o disincentivarne la frequentazione alludendo alla possibilità di infettarsi, in tali luoghi, di sconosciute malattie o essere aggrediti da abominevoli serpenti. E così, raccontò che si poteva essere raggiunti dall'avanzare delle ombre serali mentre ancora si era concentrati a perlustrare le fangose tane dei Granchi di fiume cercando di catturare quelli più grandi senza farsi colpire dalle forti chele sollevate ed allargate minacciose. Oppure si poteva riacquistare coscienza, dopo un tempo indefinito, scoprendosi lungo il corso di un ruscello, bagnato e sporco di rosso fango, mentre si inseguiva una ramata Rana appenninica. Con aria persa dietro ai suoi ricordi, aggiunse che era frequente costruire, con le pietre del letto del fiume disposte trasversalmente, improvvisate e piccole dighe lungo il suo corso forse con l’intento di rallentare la discesa di quelle fresche acque correnti o per stupirsi davanti al modesto accumulo d’acqua limpida che si formava a monte. Aggiunse con meraviglia che lì, a volte, si raccoglievano girini, piccoli e scuri come quelli dei rospi, più grassocci nel caso di rane; si immergevano veloci e neri coleotteri sommozzatori con una piccola bolla d’aria attaccata all'estremità dell’addome; percorrevano la limpida superficie dell’acqua, senza sprofondare, curiosi insetti sorretti solo dalle lunghe zampe saggiamente tenute allargate.

Una Rana appenninica (Rana italicascruta l'ambiente circostante da sopra un tronco schiantato di faggio - Vallefiorita (CZ), agosto 2020


Si fece serio quando proferì un motto del tipo Sulla faccia della Terra c'è qualcosa che non va! Disse che tale asserzione era spesso ripetuta, in un perfetto italiano, da una certa Cummar'Anna, nel suo vagare nelle vie del paese: era idea comune che questo suo dire fosse frutto della malattia senile che l'aveva colpita verso cui, colpevolmente, non si dimostrava né una diffusa comprensione né il dovuto rispetto. Si abbandonò a dire che a volte pensasse che forse la vita aveva fatto comprendere a quella donna quale sgomenta verità ci sia nascosta dietro questa intuizione. Tagliò corto dicendo che poi gli incolti sono stati sbancati dalle ruspe per far posto a grossi edifici che forse, anche loro, resteranno irrimediabilmente disabitati, seguendo il destino che ha già segnato molte altre case del centro. Aggiunse che i guadi sono stati prima sostituiti da ponti in cemento o poi dimenticati, come i ponti stessi ed i sentieri che li raggiungevano; le amate e ricercate sorgenti sono divenute fiabeschi ricordi. Le querce sono state tagliate forse per far semplice legna da ardere. Le capanne e gli archi non si costruiscono più: ci si può meglio immedesimare in un selvaggio uomo del passato tra le immagini virtuali di un video gioco, tramando strategie di attacchi o di difesa concordandole, attraverso Internet, con i membri della propria banda, sparsi potenzialmente in tutti i continenti.

Lo scheletro di una quercia annerita da un fulmine sbuca tra le fronde di un uliveto abbandonato - Francavilla Angitola (VV), settembre 2020


Concluse costatando come fosse strano che tali episodi tornassero, senza una chiara causa che li richiamasse, nelle mente di chi li ha vissuti, a volte vividi, altre volte sempre più annebbiati dalla foschia della memoria, quasi sempre ripuliti da quell'apprensione o disagio che invece potevano esserci nel momento in cui si sono sperimentati. Si acquietò dopo aver rimarcato che, oggi, questi pensieri sembrano istantanee giunte dall'altro mondo, immagini di un passato perduto, superato dall'inarrestabile corsa verso un futuro, sempre più veloce, tanto da sembrare già consumato dalle promesse il più delle volte consapevolmente ingannevoli fin dal loro plagiato proferimento.

Il Calvario Greco a cinque croci - Francavilla Angitola (VV), ottobre 2020






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